LA STORIA DELLA MINIERA DELLA ZOLFATARA DI PREDAPPIO ALTA

(Notizie tratte da:  La riesplorazione delle miniere sulfuree, 

GESSI E SOLFI DELLA ROMAGNA ORIENTALE, memorie dell'Istituto Italiano di Speleologia  )



Introduzione

La Solfatara di Predappio Alta, oggi in gestione alla Pro Loco della frazione, si apre poco fuori dell'abitato, circa 500 metri a nord, sul versante sinistro del Fosso Predappio, a circa quindici chilometri dalla zona mineraria della valle del Savio (fig. 1).

Gli strati mineralizzati si trovano sovrapposti alle arenarie micacee e marne azzurre, sottoposti ad un banco di con- glomerato di ciottoli calcarei, silicei e serpentinosi a cemento calcareo. Le coltivazioni furono praticate entro spezzoni di strato dislocati e sconvolti e sempre a poca profondità (scicli 1972, pp. 84-86)

Inquadramento storico

La Solfatara di Predappio è una delle più antiche della Romagna; fu Francesco Raineri di Villa Salto che nel 1645 segnalò per primo la presenza di zolfo nella conca della solfatara dominata dal Monte Pennino. La famiglia, che vantava anche un papa tra gli ascendenti, tenne la proprietà fino alla prima metà dell'800, cedendola alla famiglia Zoli di Predappio. Durante il periodo napoleonico, un Almanacco del Dipartimento del Rubicone per l'anno bisestile 1812 cita la solfatara come una delle più fertili (PErini 2000). Le Società Panciatichi, Piceni e Flori, verso il 1850 diedero inizio allo scavo di una galleria per l'eduzione delle acque a circa 20 metri al di sotto dei precedenti lavori, ma tale opera fu sospesa, dopo aver raggiunto i 320 metri, nel 1860 quasi a compimento del suo scopo (scicli 1972).

L'ingegnere del Distretto Minerario di Bologna, Fabbri, cita la miniera di Predappio come data in concessione ad Alessandro Flori nel 1862, successore del signor Piceni; in due anni di esercizio (1862-1863) la solfatara ebbe una produzione di 2.000 quintali di zolfo. La manodopera impiegata passa da 170 unità nel 1862 a 48 unità (Provincia forlì 1866, pp. 70-71). Ufficialmente la miniera venne data in Concessione ai Fratelli Antonio ed Alessandro Manzoni nell'anno 1874, seguirono poi affidamenti a diversi affittuari. La coltivazione aveva luo- go per pozzi e gallerie sfruttando delle masse discontinue di minerale, i lavori furono sempre molto vicini alla superficie raggiungendo un massimo di 33 metri con un pozzo denominato Manzoni. Il minerale si presentava sotto forma di filetti o noduli di solfo quasi puro a struttura cristallina in una matrice marnoso calcarea o gessosa. Sembra che questo tipo di minerale si prestasse meglio alla fusione con il metodo dei doppioni piuttosto che con quello dei calcaroni: infatti per tutto il 1800 rimase in uso tale sistema (scicli 1972).

Dallo sfruttamento iniziale con metodi rudimentali, nella seconda metà del 1800 si è passato ad una coltivazione organizzata, anche se non si sono mai avuti importanti quantitativi di minerale estratto.

Dalle documentazioni cartografiche rintracciabili nell'Archivio di Stato di Bologna si evince che nel 1900 era esercente della solfatara Giulio Severi, a cui succede l'anno successivo Severi Dionigio che nello stesso anno la cede ad Ambrogio Stagni. Nel periodo 1901-1906 Dionigio Severi è esercente di una piccola miniera limitrofa, situata ai piedi dell'attuale zolfatara e precisamente l'ingresso, un apertura nascosta in mezzo ai cespugli, si trova in fondo all'attuale parcheggio (fig. 2). 

FIG 2  Piantina di una grotta che si trova ai piedi della Zolfatara, praticamente dove si trova oggi il parcheggio auto del Presepio, ispezionata nel 1995 da Davide Santandre e Agostino Costa. ( foto dell'archivio Santandrea)

(fig 2) Nella foto sopra: mappa della seconda miniera di Dionigio Severi del 1906. Questa piccola miniera esiste tuttora e l'ingresso è situato  in fondo al parcheggio auto realizzato negli anni 90'  L'ingresso era nascosto dai cespugli e siepi che sono posti in fondo al parcheggio.

Nel 1995 Davide Santandrea e l'amico Agostino Costa, già membro del gruppo di ricerche minerali (GRM) di Forlì, recentemente scomparso, trovarono l'ingresso della miniera segnalata nella mappa del 1901 ( fig 2) e vi entrarono, armati di torce. La miniera si presentava con un grande vano, per la maggior parte sommerso dall'acqua (Fig 3)  A destra del vano si presentava un tunnel con altre due grotte laterali. Il tunnel si concludeva ad un certo punto senza alcuno sbocco. Agostino Costa riferì a Santandrea che negli ultimi anni questa piccola miniera veniva utilizzata come " stalla"  per animali di un vicino contadino.

FIG 3  Foto inedita. Nella foto del 1995 scattata da Davide Santandrea: particolare del grande vano della grotta, visitata da Santandrea e Costa Agostino, situata nei pressi del parcheggio  in parte allagata. (foto 1995, archivio Santandrea)


Tutte le mappe di inizio Novecento sono redatte da Primo Bertozzi, perito minerario, direttore e concessionario di alcune miniere del Cesena.

Mappa generica delle grotte della Zolfatara di Predappio Datata 1901  (foto dell'archovio Santandrea)

La pianta della miniera datata 1901 (Foto dell'archivio Santandrea)


Nel 1924 rileva la miniera la società "La Produttrice Commerciale", poi l'escavazione passò alla Società Anonima Zolfi di Torino e, successivamente, il 31 maggio 1928 il Distretto Minerario di Bologna concede, tramite apposita delibera, per anni tre alla Società Nazionale Industria Zolfi il permesso di eseguire ricerche di minerale di solfo nella località Predappio (archivio Di stato 1928). Dal 1924 al 1928 la produzione fu così esigua (solo 252 tonnellate di solfo greggio) da indurre la società ad abbandonare i lavori nel 1929, pur mantenendo la concessione almeno fino al '31, come si evin- ce dagli aggiornamenti presentati al distretto. Negli anni precedenti il secondo conflitto mondiale i lavori furono condotti in modo disordinato ma con grande dovizia di mezzi, con la costruzione di centrali elettriche e teleferiche, strade e infrastrutture. Quest'attività, com'è facile intuire, non era suggerita da un'effettiva importanza del giacimento, ma da convenienze di propaganda politica legate all'importanza che il paese di Predappio aveva assunto in quella particolare epoca storica (Perini 2000). La struttura comunque fu lasciata attiva fino all'inizio della Seconda Guerra Mondiale.

Nella foto: i residui dei binari  dentro le grotte della zolfatara.  Anche la zolfatara di Predappio era provvista di binari su cui scorrevano i carrelli  che trasportavano le pietre con lo zolfo fino all'esterno della miniera dove nenivano svuotati sulla teleferica che arrivava al forno Guadagni dello stabilimento della Società Zolfi che sorgeva dove attualmente c'è ora lo stabilimento della Caproni.

Anni 20' : nei pressi dell'ingresso n. 1 della Miniera (oggi  chiamata la grotta dei Pipistrelli), i minatori della Zolfatara  caricano i carrelli  (foto archivio Santandrea)

I carrelli della miniera della Zolfatara trainati dai muli. La foto è stata fatta all'epoca nei pressi dell'ingresso n.1 della Zolfatara  ( dove oggi c'è la grotta dei pipistrelli) che è franato  quando è stata realizzata la strada  che passa oggi davanti l'ingresso n.2 della miniera, quello usato oggi dai vistatori per scendere nelle grotte.   (foto archivio Santandrea)

La teleferica dello stabilimento Zolfi che dalle grotte della zolfatara portava  il materiale estratto al forno Guadagni.  

Anno 1926

La teleferica dello stabilimento ZOLFI  che serviva a portare l'etratto dalla Miniera allo Stabilimento Zolfi nella piana 

 (foto  anno 1926)

L'ingegnere Guadagni e il ministro Belluzzo alla Miniera di Predappio Alta. 

Inaugurazione dello stabilimento ZOLFI  il 27- 06-1926

La macina del forno Guadagni  dello stabilimento della Società Zolfi che sbriciolava le pietre estratte dalla Zolfatara di Predappio ( Foto anno 1926)

Il Forno Guadagni dello Stabilimento della società Zolfi (foto 1926) dove veniva fuso lo zolfo.

Attrezzatura del forno Guadagni dello stabilimento della Società Zolfi (1926)

La sede dello Stabilimento della società Zolfi  che sorgeva dove oggi si trova lo stabilimento fatiscente  della Caproni 

(foto del 1926)

La sede dello Stabilimento della società Zolfi che sorgeva dove oggi si trova lo stabilimento fatiscente della Caproni

(foto del 1926)

Una immagine dello stabilimento ZOLFI prima dellla chiusura della miniera della Zolafatara e la trasformazione in Stabililimento Caproni nel 1929

Lo stabilimento Caproni  che sorge dove un tempo c'era lo Stabilimento Zolfi. Costruito nel 1935 come officine aeronautiche, presenta una consistenza di superficie lorda pari a circa 6.600 metri quadrati ed una superficie classificata come bosco ceduo, seminativo ed ente urbano di circa 12.050 metri quadrati. Oggi lo stabile è completamente fatiscente.

Lo stabilimento Caproni allo stato attuale, completamente fatiscente e pericolante. (foto 2016, archivio Santandrea)


Negli anni '50 l'area di Predappio fu di nuovo interessata da ricerche minerarie: la società Italmin in data 21 gennaio 1957 presenta istanza per ottenere permessi di ricerca per le zone di Teodorano, Luzzena, San Romano, Predappio e Pieve di Rivoschio. Senza dare avvio a nessuna effettiva ricerca, la Società rinuncerà a tali istanze già l'anno successivo (archivio di stato 1958b). Sempre nel medesimo periodo, in data 28 gennaio 1958 il Distretto Minerario concede per anni due alla Società "Quirina" Industria Chimica e Mineraria il permesso di ricerca per minerali di ferro, solfuri di ferro, pirite o marcassite, minerali di zolfo o solforati, idrogeno solforato e anidride carbonica, per l'area definita "Predappio Alta" (archivio di stato 1958a), permesso a cui la Società rinuncia due anni dopo. Dopo questi sporadici tentativi di ripresa dell'attività che non diedero risultati degni di nota, la miniera fu definitivamente abbandonata.

Alcune delle gallerie di ricerca e coltivazione di quegli anni sono ancora percorribili e sono l'oggetto del presente studio.

Oggi la miniera è in gestione alla Pro Loco della frazione di Predappio Alta ed è utilizzata come attrazione turistica, organizzandovi il presepio natalizio ed altre iniziative pubbliche. Le attività di sistemazione per rendere le gallerie accessibili ai visitatori hanno comportato rimaneggiamenti e consolidamenti  che potrebbero dare adito a certe critiche di tipo estetico e conservativo della funzione che ebbe il sotterraneo, ma quanto meno mantengono in parte la memoria delle attività minerarie del territorio, riconoscibili anche dai muri di ripiena originali che si incontrano in alcune gallerie 

Inquadramento geomineralogico

Il massiccio inglobante la Solfatara di Predappio Alta interessa prevalentemente terreni appartenenti alla formazione Gessoso-solfifera di età Messiniana: calcari marnosi e calcari solfiferi disposti con andamento monoclinalico ricoperti in parte da un "cappellaccio" argilloso-limoso. L'affioramento calcareo in oggetto è circondato su tre lati (nord, est ed ovest) da Formazioni marnoso-arenacee più antiche, da cui è separato da contatti tettonici, mentre a sud l'affioramento calcareo confina con conglomerati cementati e mal stratificati, che sono visibili 150 metri prima di raggiungere l'ingresso della miniera lungo la strada di accesso, proveniendo da Predappio Alta. Le gallerie sono scavate prevalentemente in roccia calcarea disposta con andamento monoclinalico (direzione 185°, inclinazione 20°-25°), che si presenta a volte compatto e a volte poroso. Lo zolfo è presente in piccoli nuclei di cristalli sparsi; a volte si manifesta con patine bianco-giallastre di spessore millimetrico che rivestono le rocce. È interessante anche la presenza di ferro sotto forma di ossido ed idrossido (ocra rossa e limonite) che forma concrezioni visibili nella cavità. Sono visibili anche concrezioni calcaree di limitate dimensioni, l'esempio più significativo è rap- presentato dalla "sala del Trono" (Lucchi 1987).


Una portantina che veniva usata dai minatori per trasportare le pietre con lo zolfo dalle grotte sino ai carrelli nel tunnel della miniera. (foto archivio Santandrea)

IL PERICOLO DI LAVORARE NELLA MINIERA

La miniera della Zolafatara conobbe la sua massima attività nell'Ottocento e  Novecento. A causa delle condizioni ambientali e lavorative, i minatori della minierea solfifera di Predappio alta, e non solo, soffrivano di una malattia definita "anemia del minatore", causata da un nematode Ancylostoma duodenale, che, nella fase di adulto, si localizza nell'intestino. Oltre a descrivere il contesto storico, ambientale e sociale della miniera di Predappio Alta, ripercorriamo la storia degli studi della ancylostomiasi e descriviamo la parassitosi dal punto di vista eziologico, clinico e diagnostico. 

Foto inedita: Minatori all'interno della Zolfatara , anno sconosciuto, (Archivio Santandrea)


La miniera di Predappio Alta,  i minatori e i rischi del mestiere

I depositi solfiferi romagnoli e montefeltrani sono al centro di una storia estrattiva e socio-economica plurisecolare, tuttora alla base del senso di identità delle comunità locali e che ha segnato in modo indelebile questi territori. Specie a partire dalla Seconda Rivoluzione Industriale si assistette ad un deciso potenziamento del comparto solfifero, in risposta a una domanda sempre maggiore dello zolfo raffinato nelle industrie e in agricoltura. Se da un lato tale boom garantì occupazione e cospicui guadagni, alternati a rapidi rovesci di fortuna, per i proprietari, dall'altro il duro e malsano lavoro della solfatara comprometteva ineluttabilmente la salute dei minatori, specie degli operai più giovani, costretti, ancora in tenera età, a trasportare pesi considerevoli, che spesso li condannava ad uno sviluppo fisico inadeguato alla loro età. Oltre agli infortuni, alla malnutrizione e alle deformazioni scheletriche, i minatori, che di frequente lavoravano scalzi (fig. 1), soffrivano di una malattia, spesso, fatale, nota con il nome di "anemia dei minatori".

Foto inedita: Minatori all'interno della miniera della Zolfatara  ( anni 20', archivio Santandrea)


Le gravi condizioni in cui il minatore era costretto a lavorare in miniera

Gravissime erano spesso le condizioni di lavoro del minatore in miniera. Le grotte della miniera della Zolfatara  di Predappio Alta erano ambienti angusti, dove si lavorava al lume di torce e candele, attraverso turni massacranti. L'ambiente,  polveroso ed insalubre,  creava diffilcoltà anche a respirare.  Al termine di un lungo turno di lavoro massacrante il minatore trovava difficoltà a riadattarsi  alle diverse condizioni di luce, specialmente se fuori dalle grotte c'era il sole. Era difficile invecchiare in miniera.  Il lavoro così duro  e malsano  logorava anche i fisici più dotati. La carenza di ossigeno e la polvere causata dalle continue escavazioni  provocavano disturbi  e gravissime malattie, soprattutto ai polmoni, per questo motivo i minatori, se non cambiavano vita  dopo pochi anni di attività in miniera, erano destinati  ad una morte certa e prematura. Ma la malattia più comune tra i lavoratori della miniera era "L'anemia del minatore"

Altra foto dei minatori della Zolfata di Predappio Alta  (Foto 1924 - Archivio Santandrea)


Verso la conoscenza della eziologia della "anemia del minatore"

Per centinaia di anni, soprattutto i minatori, ma anche i lavoratori di mattoni e i contadini, morivano per cause ignote. Era il 1838 quando l'italiano Angelo Dubini (1813-1902), medico, patologo e parassitologo, nel corso del suo lavoro presso l'Ospedale Maggiore di Milano, per primo, riconobbe nell'intestino di una contadina un nuovo nematode. Dubini (1843) pubblicò le sue indagini e denominò il nematode Agchylostoma (duodenale), nome poi corretto in Ancylostoma, da allora posto in correlazione con i casi di anemia.

Negli anni successivi, l'interesse nei confronti di questo nematode andò crescendo e gli studi consentirono in molti casi di riconoscere la patologia in molte zone del mondo: Griesinger, nel 1854, in Egitto; Wucherer, nel 1866, a Bahia, ma anche in Italia. Bozzolo, nel 1879, riconobbe in Ancylostoma la causa dell'anemia tra i mattonai e, nella seconda metà del 1800, grazie agli studi di Grassi, dei fratelli Parona, di Perroncito e di altri, gli studi sullo sviluppo del parassita e la sua relazione con il terreno o gli escrementi divennero sempre più chiari (Grassi et alii 1878). La diagnosi di an- cylostomiasi da parte di Perrocito sulla causa dell'anemia degli operai addetti al traforo del Gottardo fece "scuola", tanto che queste intuizioni, supportate da sempre maggiori evidenze scientifiche (PErroncito 1910), aprirono la strada alla conoscenza degli aspetti epidemiologici dell'ancylostomiasi anche in altri paesi e in diversi centri minerari italiani e stranieri. Nelle miniere di Francia, Belgio, Germania, Ungheria (paesi nei quali l'anemia dei minatori era nota sin dalla seconda metà del 1700), e, via via, anche in altre regioni italiane (Sicilia, Umbria, Veneto, Emilia Romagna) si accertò, con sempre maggiore cognizione di causa, la relazione tra la grave malattia, nota da oltre un secolo col nome di anemia o cachessia dei minatori, che faceva strage tra gli operai delle miniere, e Ancylostomaduodenale4.

Ovviamente anche i lavoratori della miniera della Zolfatara di Predappio Alta non si sottrassero alla malattia e alla diagnosi di ancylostomiasi.

Capsula buccale di Ancylostoma duodenale
Capsula buccale di Ancylostoma duodenale

 Capsula buccale di Ancylostoma duodenale che causa la famosa "anemia delminatore" . Lo si prendeva quando si camminava scalzi dentro le grotte delle miniere Zolfatare in Emilia Romagna e in altri luoghi D'Italia.

 (foto archivio Santandrea)

Cartello che veniva installato all'interno delle Miniere in Emilia Romagna ( compreso la Zolfatara di Predappio Alta) per non rischiare di contrarre il parassita Agchylostoma (duodenale) (foto Archivio Santandrea)

LE MALATTIE E GLI INCIDENTI DEI ZOLFATARI NELL'800


(TRATTO DA : LE MALATTIE DEI ZOLFATARI DI MONTEFELTRO NELL'800 di Giancarlo Cerasoli, Pediatra, Cesena )   

In questo breve contributo cercherò di rispondere a questo interrogativo: quali erano le malattie più frequenti e gravi dei minatori dello zolfo nel Montefeltro e in Romagna nella seconda metà dell'Ottocento? Utilizzerò parte delle informazioni pubblicate nel libro Mal di zolfo. Minatori, medici e malattie nella valle del Savio e nel Montefeltro nella seconda metà dell'Ottocento, scritto con Pierpaolo Magalotti ed edito nel dicembre 2017, a Cesena, presso l'editrice Stilgraf. Le informazioni che darò sono state ricavate da numerose fonti: relazioni e inchieste sanitarie, testi e riviste di medicina, fascicoli giudiziari (di tribunali, Corti d'Assise, etc.), leggi, decreti e regolamenti, informative di Prefetti, Sindaci e Autorità di P.S., relazioni economico- amministrative delle miniere, fonti letterarie come autobiografie, romanzi, racconti, poesie, etc., periodici locali e nazionali, riviste storiche e tesi di laurea, memorie orali, ma anche filmati, foto, cartoline, manifesti, disegni, stampe, quadri, etc. I documenti sono stati reperiti soprattutto negli archivi (Archivi di Stato di Forlì e Cesena, Archivio arcivescovile di Cesena, Archivio Comunale di Mercato Saraceno, Archivio Genio Minerario di Bologna e Ancona, Archivio Società Miniere Zolfuree di Romagna, Archivio Museo Sulphur di Perticara, Archivio Diplomatico Min. Aff. Esteri a Roma) e nelle biblioteche (Biblioteca Camera dei Deputati, Biblioteca College of Physician di Philadelfia, Biblioteche Comunali della Romagna, Biblioteche Nazionali di Firenze e di Roma) e in siti internet. La fonte primaria per conoscere le patologie che affliggevano i lavoratori delle miniere di zolfo del Montefeltro e della Romagna nella seconda metà dell'Ottocento è costituita dalle statistiche compilate dai medici. Dato che non esistevano villaggi di minatori e non ci sono pervenuti i registri delle infermerie e degli ospedali dei siti minerari in esame, le sorgenti d'informazioni più importanti sono le relazioni che scrissero i condotti che operarono nei comuni dove le miniere erano dislocate. Si possono trovare informazioni utili anche nelle inchieste sanitarie statali, che però quasi sempre si limitano a dare notizie generali, senza approfondire la descrizione della situazione nei siti minerari e dei lavoratori ivi impiegati. Nei Risultati dell'inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie nei comuni del Regno, che si svolse nel 1855, ad esempio, sono ricordate in modo molto sommario anche le malattie professionali e fra queste quelle che affliggevano i minatori: «morti accidentali», «infiammazioni dell'apparato respiratorio » e «febbri da malaria». Negli Atti dell'inchiesta agraria Jacini, del 1877, le «malattie dell'uomo» rilevate nel Cesenate erano Le febbri infettive e reumatiche e la pellagra, però non sembra in proporzioni gravi. La pellagra era molto diffusa anche nel territorio della provincia di Pesaro-Urbino, e nella relazione statistica del prefetto Giacinto Scelsi del 1881 era imputata all'alimentazione prevalentemente a base di mais praticata nelle campagne. Per il comune di Cesena possiamo contare sulle precise informazioni fornite da Robusto Mori, Primario Medico di quella città e direttore della sezione medica dell'ospedale dal 1860 al 1899. Nelle sue dettagliate relazioni sanitarie è ricordata più volte la patocenosi di quel comune: «da noi sono endemiche le febbri da malaria (nelle zone adiacenti alle risaie del Cervese), la pellagra (nelle zone collinari), il tifo addominale e i processi tubercolari (soprattutto polmonari e linfoghiandolari)». Va ricordato che la malaria era presente anche in alcune località della vallata del fiume Marecchia, favorita dalla presenza delle risaie, dove si moltiplicavano facilmente le zanzare anofeli vettrici del plasmodio. Oltre alle patologie sopra ricordate, le altre malattie infettive epidemiche più diffuse erano: la difterite, il morbillo, la scarlattina, la pertosse, la parotite, il tifo petecchiale, l'influenza e la varicella. Il vaiolo non ebbe vasta diffusione anche per merito delle efficaci campagne di vaccinazione. Il colera colpì soprattutto durante l'epidemia del 1855, quando a Cesena causò una mortalità del 15,4 per mille abitanti e a Mercato Saraceno del 28,9 per mille, più elevata della media della Legazione di Forlì che era del 21,37 per mille. Dall'Inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie eseguita nel 1885 si evidenzia un quadro nosografico della provincia di Forlì sovrapponibile a quello descritto da Mori e vi compare, per la prima volta, la segnalazione tra gli «scavatori dello zolfo nelle miniere di Formignano » di «una grave anemia con anchilostomiasi», che Mori aveva descritto nel 1881. In alcune relazioni compilate dai medici o dai proprietari delle miniere, sono presenti notizie precise su alcune delle patologie «professionali», ossia che colpivano specificamente o in maggiore misura i lavoratori delle miniere di zolfo. In primo luogo vanno ricordate le patologie di origine traumatica, dovute agli incidenti avvenuti sia sottoterra che sopraterra, poi la prima vera e propria patologia professionale, ossia l'anchilostomiasi, e inoltre i danni dei polmoni, del cuore, dell'apparato muscolo-scheletrico, della cute, degli occhi e dell'apparato neuro-psichico. In questo breve saggio verranno prese in esame soltanto le patologie traumatiche poiché sono quelle che mietevano il maggior numero di vittime.

Gli incidenti in miniera


Gli incidenti erano la causa più importante nel determinare malattie e morti tra i minatori. I siti minerari del Montefeltro e della Romagna erano considerati, subito dopo quelli della Sicilia, quelli che presentavano «condizioni intrinseche maggiormente pericolose». Gli infortuni più frequenti in miniera erano i seguenti: 1. Distacco di roccia: costituiva l'incidente più frequente e temuto. Masse rocciose distaccatesi dalla volta delle gallerie e dei cantieri di lavorazione, rovinavano pesantemente sui minatori, schiacciandoli e ostruendo le vie di uscita. 2. Scoppio e inalazione di grisou. Questo gas (idrogeno proto carburato), tipico delle miniere di carbone, è composto in prevalenza da metano. È molto più leggero rispetto all'aria, quindi si trova nelle volte delle gallerie ed ha un odore fetido. I danni causati dal suo scoppio erano rilevanti, dato che i minatori lavoravano quasi nudi per l'alta temperatura e gli elevati tassi di umidità e la fiammata, rapida ad accendersi ed esaurirsi, bruciava la superficie cutanea esposta e la sua inalazione causava ustioni nelle mucose dell'apparato respiratorio. Allo scoppio del gas poteva conseguire la frana della galleria, e allora la causa del danno era duplice. 3. Inalazione di idrogeno solforato o acido solfidrico: si tratta di un gas velenosissimo, che determina stato confusionale e stordimento prima ancora che se ne avverta l'odore caratteristico. La vittima, cadendo a terra, muore rapidamente respirando quantità elevate del gas e anche i soccorritori spesso fanno la stessa tragica fine. Se investe gli occhi può determinare una cecità temporanea che dura due o tre settimane. 4. Intossicazione da anidride solforosa: è dovuta a un gas sviluppatosi per combustione dello zolfo, dannoso per tutti gli esseri viventi, comprese la flora e la fauna. Solubile in acqua, si può resistere a esso per un tempo limitato respirando attraverso un panno inumidito o inzuppato con particolari composti chimici. Era chiamata «fumo di zolfo» e si sprigionava durante il brillamento delle mine, gli incendi nei cantieri e con la combustione delle rocce sulfuree nei calcaroni, i cumuli di rocce solfifere che venivano incendiati per ricavare lo zolfo. 5. Asfissia da anidride carbonica e altri gas nocivi chiamati «tufo mortale», un «liquido volatile», non infiammabile, costituito da carbonio, idrogeno e zolfo. 6. Inalazione del fumo di mine e di pulviscolo. 7. Caduta nei pozzi: 8. Caduta di materiale dai pozzi. 9. Traumi da schiacciamento: per incauto utilizzo dei carrelli, vagoni e degli altri mezzi per il trasporto delle rocce e del metalloide fuso. 10. Scoppio intempestivo delle mine 11. Caduta in un calcarone in caricamento o in scarico. 12. Caduta in una vasca di raccolta delle acque o inondazione delle gallerie. 13. Scoppio di una caldaia a vapore. La fonte ufficiale più autorevole per ricavare i dati di mortalità e morbilità riferiti agli incidenti verificatisi nei siti minerari è la serie di pubblicazioni periodiche edite a cura del Reale Corpo delle Miniere. In essa sono riportate statistiche molto dettagliate dalle quali emerge che nelle miniere di zolfo presenti in Italia, la mortalità nel periodo tra 1874 e 1893 ebbe una media di 2,2 operai su 1000 e oscillò tra lo 0,55 e il 6,06 per mille, con incremento soprattutto tra il 1880 e il 1886. Le denunce d'infortunio, invece, riguardarono in media 3,5 operai su mille con valori oscillanti tra lo 0,2 e il 13,6 per mille e punte massime tra il 1881 e il 1889. Questa mortalità risulta superiore a quella delle più pericolose miniere carbonifere inglesi (media 1,82 per mille), francesi (2,07 per mille) e belghe (1,77 per mille) e pari solo a quelle prussiane (2,63 per mille. Nelle miniere di zolfo del Montefeltro e della Romagna, nel ventennio 1874-1893, la mortalità media risulta del 2,09 per mille, con un picco nel 1881 del 5,3 per mille. La quota media dei feriti è del 2,53 per mille, con una punta del 6,70 per mille nel 1887 e con il 16 per cento degli incidenti che risultano «prevedibili», ossia frutto d'imperizia o negligenza. Per gli anni dal 1884 al 1898, i dati di mortalità per mille lavoratori delle miniere di zolfo delle provincie di Forlì e di Pesaro mostrano un calo rispetto a quelli degli anni precedenti, oscillando dallo 0,28 (del 1886), al 3,39 (del 1896), con un massimo del 4,59 nel 1890. Il numero dei feriti oscilla dall' 1,1 per mille occupati (nel 1884- 85) fino al 2,5 (nel 1892), con una punta isolata del 4,59 nel 1890. In alcuni casi è possibile attingere a documenti non ufficiali che indicano i morti, i feriti e i relativi giorni di cura. In questo caso i dati di mortalità sono simili a quelli riportati nelle statistiche ufficiali, ma i dati di morbilità sono di gran lunga più elevati. Nel 1864, ad esempio, nelle miniere del Cesenate, su 286 lavoratori ben 166 (il 58 per cento) mancarono in servizio per «malattia» e 74 (il 26 per cento) per «ferita». Anche dagli «specchi dimostrativi» compilati dal direttore Pietro Pirazzoli per le miniere di Marazzana, Perticara, Formignano e Busca dal 1865 al 1876, si ricava una percentuale di minatori infortunati, molto superiore a quella denunciata dagli ingegneri del Reale Corpo delle miniere. I dati sull'aspettativa di vita e sulla vita media dei minatori, laddove disponibili, evidenziano chiaramente che la durata dell'esistenza del lavoratore delle miniere era in quei decenni più breve rispetto a quella di altri lavoratori. Nel 1864, per fare un esempio, gli operai con un'età superiore ai 55 anni ancora impiegati nelle miniere di Marazzana e Perticara erano 34 su 839, pari soltanto al 4 per cento del totale. Una delle cause della differente stima della prevalenza e gravità degli incidenti in miniera, è senza dubbio il fatto che le statistiche ufficiali riguardavano soltanto gli incidenti con le conseguenze più gravi, mentre le rilevazioni non ufficiali, soprattutto quelle di alcuni amministratori minerari e gestori delle Casse di soccorso tra i minatori, consideravano anche gli infortuni più lievi. Bisogna ricordare che, fino al 1899, quando entrò in vigore la legge nazionale che prevedeva l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, nessuna utilità veniva all'operaio nel denunciare la patologia della quale era affetto. Questo, anzi, sarebbe stato per lui controproducente poiché i gestori della miniera avrebbero di certo scelto un altro al suo posto. Inoltre verso di lui, in caso d'incidenti dovuti a imperizia o negligenza nella messa in opera delle misure di sicurezza prescritte, si sarebbero aperti dei procedimenti di tipo giudiziario volti a evidenziare le mancanze e quindi comminare punizioni piuttosto che risarcimenti. Si deve tenere presente, inoltre, che in alcuni casi, i morti in miniera erano subito portati lontano dall'ambiente di lavoro, per non far risultare che il decesso era dovuto a incidenti causati dalla imperizia o negligenza dei sorveglianti e dei dirigenti. Nel caso di contusioni e infortuni lievi, le subdole resistenze delle amministrazioni minerarie alla denuncia delle lesioni diventavano talora fortissime per timore che gli ispettori del Corpo delle miniere nel corso della visita, rilevassero altri spiacevoli inconvenienti e facessero chiudere la miniera. Gli stessi lavoratori, inoltre, richiedevano raramente l'intervento dei medici per la difficoltà di sostenere le spese per l'acquisto dei medicinali, molti dei quali, va ricordato, avevano scarsa efficacia terapeutica. Quando poi l'infortunato si decideva a denunciare il danno subito, i medici stipendiati dalle società assicuratrici e minerarie, talvolta, cercavano di ridurre al minimo i periodi di assenza o di convalescenza. Il fatto che nel 1886 fosse entrata in vigore la Cassa nazionale di assicurazione, che prevedeva risarcimenti anche per infortuni leggeri, non provocò, come invece si temeva, un reale aumento delle denunce d'incidenti. Oltre alle statistiche del Ministero dell'Agricoltura, Industria e Commercio, e a quelle pubblicate nella «Rivista del Servizio Minerario», altre fonti importanti d'informazioni a loro volta "ufficiali" sugli incidenti in miniera sono: le denunce fatte dagli esercenti delle miniere, i referti dei medici e dei chirurghi che esaminavano le vittime, i verbali redatti dagli ingegneri del Corpo Reale delle Miniere, le ispezioni dei carabinieri e gli atti giudiziari che si riferiscono ai processi intentati ai minatori infortunatisi o deceduti. Questi procedimenti avevano per lo più lo scopo di dimostrare come gli incidenti fossero dovuti all'imperizia e alla negligenza dei lavoratori, escludendo in tal modo la responsabilità degli esercenti delle miniere. Le relazioni più dettagliate sono quelle compilate dagli ingegneri del corpo delle miniere, dove risultano analizzate in maniera meticolosa le dinamiche degli incidenti, la messa in opera delle idonee misure di prevenzione e di soccorso e sono indicate le responsabilità e i provvedimenti da adottare al fine di ridurre il rischio della ricorrenza di quegli incidenti. Informazioni meno dettagliate si possono trarre anche dai verbali giornalieri e dai riepiloghi inviati periodicamente ai prefetti dai carabinieri nei quali, erano sottolineati: il non uso delle necessarie cautele, la «lavorazione troppo abbondante», la poca diligenza dei sorveglianti e la ventilazione inefficace delle gallerie sotterranee. Alcune testimonianze di minatori vittime di infortuni che subirono processi, dimostrano come anch'essi subirono quel sistema di «vessazione delle vittime» che, oltre a non riconoscere il danno patito, li condannava a sanzioni anche gravi per non aver messo in opera le misure di sicurezza prescritte (a volte di difficile attuazione) e la necessaria vigilanza. Accanto alle fonti ufficiali vanno citate altre sorgenti d'informazioni capaci di darci anche altri punti di vista. Si tratta delle notizie contenute nelle cronache delle città, nei giornali, nei Libri dei morti custoditi nelle parrocchie e nelle suppliche, invocazioni e preghiere scritte dai sacerdoti. A volte essi contengono la descrizione meticolosa e partecipata di avvenimenti luttuosi non riportati nelle statistiche ufficiali, più vicina alla «mentalità popolare».

Le norme di prevenzione degli incidenti e le cure prestate agli infortunati

Per ridurre il numero e la gravità degli incidenti in miniera, nel tempo vennero messe in opera precise misure di prevenzione. Un primo nucleo di queste disposizioni riguardava l'impiego di strumenti meno pericolosi: come le mine conservate in casse di ferro e dotate di micce più sicure, le lampade e le cinture di sicurezza e i carrelli trasportatori dotati di dispositivi capaci di fermarli in caso di sganciamento non previsto. Altre norme riguardavano il comportamento dei lavoratori proibendo che raggiungessero le gallerie calandosi nei pozzi lungo le funi, percorressero gallerie pericolose e facessero brillare mine in posti non sicuri. Vennero date precise regole da seguire in caso di incendi o sviluppo di gas o di altri infortuni per dare l'allarme e allontanarsi in gruppo, in modo da ridurre i rischi di soffocamento o di smarrimento. Un'altra serie di misure riguardava il miglioramento delle maschere di protezione dai gas venefici delle quali erano dotate le squadre di soccorso: dal «Sacco Galibert» alla «fiasca di salvamento» alla «scatola del solfataio». Contemporaneamente venne migliorata l'organizzazione del soccorso prestato agli infortunati. A partire dal 1840, alcuni proprietari delle miniere stipendiarono, attraverso trattenute sul salario dei lavoratori, i medici o i chirurghi che dovevano prestare loro le cure. Dal 1872 vennero costruite nei siti minerari più grandi apposite infermerie, o piccoli ospedali, dotati di letti, scorte di farmaci e strumentazione chirurgica. Venne, inoltre, predisposto un miglior servizio di trasporto dei feriti più gravi verso gli ospedali civili più vicini.

Riflessioni conclusive


Dalle informazioni presentate in questo breve contributo è possibile constatare come, anche in Montefeltro e in Romagna, nella seconda metà dell'Ottocento sia stato messo in atto nei confronti dei lavoratori delle miniere una sorta di silenzioso genocidio, che né le deboli proteste dei filantropi, né le autorevoli prese di posizione di alcuni corpi scientifici e della parte più sensibile dell'opinione pubblica riuscirono ad impedire. Solo nel Novecento, il «secolo dell'Assicurazione sul lavoro» furono messe in opera misure di profilassi, cura ed assistenza più efficaci che alleviarono le sofferenze di molti minatori.

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